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Ciro Discepolo | Estri & Astri | Crimini & Misfatti


Crimini & Misfatti (di Woody Allen)
di Ciro Discepolo


Come sul parallelo dei personaggi di Fëdor Michailovič Dostoevskij dell'ultra noto Delitto e castigo, quelli di uno dei più bei film di Woody Allen, si intrecciano in una vicenda che sembra avere come sfondo l'eterna domanda "Paga, il delitto?", ma che in realtà va molto più in là delle lacerazioni del giovane studente assassino Raskolnikov del drammaturgo russo per mettersi di fronte a tutta una serie di interrogativi di ampio respiro esistenziale, come il perché della vita, l'esistenza di Dio, le "voci di dentro" e molte cose ancora. In questo film dell'ex compagno di Mia Farrow, si intrecciano o sembrano intrecciarsi due storie parallele, anzi, cento storie parallele, che hanno in comune tra loro una sola cosa: la vista. Infatti il film, che in lingua originale era Crimes and misdemeanors, è nient'altro che una lunga, intrecciata, didascalissima metafora sulla vista. Il regista sinistrorso newyorkese Cliff Stern sembra trovare una perfetta identità di vedute con una giovane produttrice, Hally Reed (Mia Farrow). Insieme, dicotomicamente, fanno scorrere le loro esistenze su di una lunghissima intervista ad un vecchio filosofo Levy (in Allen c'è sempre e dichiaratamente il richiamo alle sue origini ebraiche) che parla della vita e dell'amore mentre la parte dottor Jekyll di essi gira un documentario celebrativo, su commissione, che narra la vita di un giovane, brillante, bello, affascinante e stupido produttore hollywoodiano cognato di Woody, la cui storia matrimoniale sta andando a pezzi. L'altra parte, si potrebbe dire parallela, del film, è quella del dottor Judah Rosenthal (quasi tutti i personaggi di questo film sono ossessivamente presentati come ebrei). Judah parla ad una festa in suo onore, in un lussuoso ristorante di New York e dice che se è riuscito a fare avere, all'ospedale presso il quale è primario, i fondi necessari per aprire un reparto di oftalmologia, probabilmente ciò lo si deve, andando a scavare freudianamente dentro di lui, ad una frase che il padre, assai religioso, gli ripeteva spesso: "Dovunque gli occhi di Dio sono su di noi". Ed è proprio la vista che fa da trama conduttrice di questo film che amo molto. Judah che fa l'oculista e dovrebbe misurare la vista degli altri, porta gli occhiali e non si accorge della realtà che lo circonda. Inizia una relazione con una donna isterica che minaccia di dire tutto alla moglie del medico e di distruggerlo professionalmente. Judah, allora, parla prima con un rabbino, il quale dice che bisogna guardare dentro il proprio cuore (ma intanto lui sta diventando cieco). Poi parla con suo fratello, un gangster, che "vede esattamente la realtà", e che consiglia al fratello di fare assassinare l'amante. I riferimenti alla vista, agli occhi di Dio, al vedere, sono continui, didascalici, quasi ossessivi: i fari abbaglianti della macchina di Judah che ritorna sul luogo del delitto, la stessa luce che investe l'oculista mentre esce da una galleria, il fatto che per tutto il film il medico porta gli occhiali e poi se li toglie proprio quando il rabbino è diventato cieco del tutto. Il regista Stern continua a vedere la realtà sotto forma di fiction, andando al cinema di giorno e guardando, da dietro una cinepresa il suo professor Levy che dà lezioni sulla vita (ricordate Erich Fromm che ci parla dell'uomo moderno, in "Psicanalisi della società contemporanea", incapace di vedere qualunque paesaggio se davanti ai propri occhi non vi è una fotocamera o una cinepresa?). Nel finale il professore si uccide, dopo aver parlato per una vita intera di amore, lasciando un laconico messaggio: "Esco dalla finestra". Stern viene licenziato perché paragona il suo personaggio a Mussolini nell'atto di tirare il fiato col naso e mettendo il petto in fuori con le mani sui fianchi ("Se si piega fai ridere, se si spezza non fai ridere..."). Stern si lascia con la moglie che da molto ha un amante e, alla fine del film, come intorno alla pista di un circo di felliniana memoria, si ritrovano tutti i personaggi che dovremmo chiamare "brutti, sporchi e cattivi" e che invece troviamo mascherati nei loro smoking e preziosissimi abiti da sera. Tutti brindano e sorridono ad una cerimonia di nozze. Qui Stern apprende che Hally Reed si è fidanzata col produttore che può comprare tutto quello che vuole e scopre che guardare la vita senza il filtro della fiction è durissimo, tanto duro da pensare al suicidio. Come nel romanzo del grande drammaturgo russo, in questo bellissimo film di Woody Allen, i personaggi continuano a domandarsi se il delitto paga o non paga. Judah che non ha dormito per mesi, dopo avere fatto assassinare la sua amante, dice che una mattina si è alzato, ha visto il sole, ha pensato a Dio, si è detto felice di vedere il mondo com'è fatto ed ha ricominciato a vivere.

Il distico che sembra sorreggere la pellicola potrebbe essere: "Si può guardare senza vedere e si può vedere senza guardare". Lo spettacolo finisce con il valzer solitario e triste del rabbino cieco (con gli occhiali scuri) che danza nella sala della festa mentre i "personaggi" di questa se ne vanno lentamente.

Ciro Discepolo

 

 

Tratto da Estri&Astri, edizioni Ricerca '90