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Ciro Discepolo | Articoli | La parapsicologia nell'opera di Jung

 

La parapsicologia nell'opera di Jung
di Mario Moreno


NOTA INTRODUTTIVA AL TESTO DI MARIO MORENO (di Luciana Marinangeli)

 

Il testo che segue è la relazione letta dal mio maestro, lo psicanalista junghiano Mario Moreno, al Convegno Nazionale su "Parapsicologia e Psichiatria" tenutosi a Modena nel settembre 1971, e ripubblicato insieme ad altri importanti saggi nel volume Psicoterapia e critica sociale edito da Sansoni nel 1974. Mario Moreno, medico specialista in neurologia e psichiatria, allievo di Mario Gozzano e del grande Ernst Bernhard che portò Jung in Italia, è stato primo membro italiano della Associazione Internazionale di Psicologia Analitica e presidente del Centro Italiano di Psicologia Analitica. Libero docente di psichiatria, ha insegnato nella Scuola di psichiatria dell’Università di Bologna. È stato uno dei più autorevoli rappresentanti della scuola di C.G. Jung nel nostro paese. I suoi studi riguardano particolarmente i rapporti tra psicologia analitica e società. Ha scritto tra l’altro: "Breve storia della psicoterapia" (ERI, Torino 1968), Psicodinamica della contestazione (ERI, Torino Problemi attuali di psicologia femminile (ERI, Torino 1972), La dimensione simbolica (Marsilio, Padova 1973), Venti argomenti per un seminario di psicoterapia (Boringhieri, Torino 1975), Introduzione alla prassi della psicologia analitica (Il Pensiero Scientifico, Roma 1978). È scomparso tra il dolore di quanti lo conobbero nel 1983 e di lui e del suo periodo hanno parlato tra gli altri Aldo Carotenuto in "Jung e la cultura italiana", Astrolabio 1977 e Roberto Sicuteri e altri in "La danza degli archetipi", CUEN, Napoli 1989. La RAI gli dedicherà il 2 luglio 1990 una delle sue trasmissioni internazionali nella rubrica "Miscellanea di cultura" sotto il titolo: "Aspetti della psicoterapia in Italia". Questo testo che ho voluto presentare ai lettori di Ricerca ’90 riflette un’evoluzione nel pensiero di Mario Moreno. Molti dei primi allievi di Bernhard negli anni Cinquanta avevano reagito con un rifiuto a quello che ai loro occhi di giovani psichiatri d’avanguardia appartenenti all’élite psicoterapeutica italiana del tempo poteva apparire un segno d’involuzione e di arretratezza: l’interesse accentuatissimo di Bernhard per il mondo del mistero, per la chiromanzia, per l’astrologia, di cui al pari di Jung si serviva moltissimo per capire meglio i suoi allievi e pazienti, a tutti i quali faceva l’oroscopo dopo un paio di mesi dall’inizio delle sedute, e che tutti hanno conservato. Tutti, ma non il Moreno, che, come mi raccontava Stefano Andreani, assieme a me primo suo allievo, anzi si vantava di non essersi fatto fare l’oroscopo dal maestro, "ma aveva l’occhio triste nel dirlo", ricorda Stefano. Del resto nelle sedute manteneva di fronte al materiale puramente irrazionale dei sogni e delle emozioni dei pazienti un comportamento al massimo razionale: era un Capricorno con Luna in Vergine, e la prima e seconda funzione psicologica sua, per parlare in termini junghiani, era la ragione e poi la ragione. Ma lo smentivano poi lo stesso enorme interesse per i sogni, di cui pareva avere una vera fame e a cui si volgeva con una incredibile fede nel loro aiuto pur se così elusivo e contraddittorio, e il grandissimo rispetto con cui ascoltava il paziente quando questi raccontava esperienze di sincronicità o di medianità o di parapsicologia. Sull’astrologia si asteneva dal pronunciarsi, mentre talora acconsentiva a esplorare col paziente i Chig, secondo il metodo classico che gli aveva insegnato lo stesso Bernhard, se ciò rientrava in un momento dello sviluppo della persona. Mi sembra dunque interessante segno di un atteggiamento diverso, più accettante, il fatto che abbia acconsentito a fare opera di chiarimento, studiando attentamente la posizione di Jung sulla parapsicologia, nella sua relazione al Convegno del 1971 che qui viene riproposta.

Mario Moreno

 

LA PARAPSICOLOGIA NELL’OPERA DI JUNG

"In questo campo oscuro e complesso, dove tutto sembra essere possibile e al tempo stesso incredibile, è necessario aver osservato personalmente, e poi ancora aver udito o letto molte storie, e se possibile averle verificate attraverso l’interrogativo di testimoni, per arrivare a un giudizio anche solo parzialmente valido".

Così Carl Gustav Jung scriveva nella prefazione del libro di Fanny Moser Spettro e a me è sembrato opportuno riproporre queste sue parole, accingendomi a parlare di un argomento verso il quale noi tutti siamo pieni di pregiudizi o, per dirla in termini psicoanalitici, utilizziamo ogni possibile meccanismo di difesa. Personalmente ho avuto soltanto qualche rara, occasionale e spontanea esperienza dei fenomeni che sono oggetto della parapsicologia, e pertanto non avrei alcun titolo per parlarne. Tuttavia studiando l’opera di Jung, mi sono profondamente convinto che i suoi tentativi di interpretare le proprie esperienze in questo campo contengono delle intuizioni estremamente interessanti, stimolanti, direi quasi illuminanti. È per questo che ho accettato volentieri l’invito a tenere questa conferenza.

Molti anni fa, quando non avevo ancora iniziato la mia attività di analista, un mio caro amico e collega psichiatra stava passando un periodo molto critico: di lui si sarebbe potuto dire allora che era un caso borderline. Un giorno venne da me pieno di ansia e mi disse: "Sono certo che sto diventando pazzo. Da questa mattina non vedo che leoni". E mi raccontò una serie di incontri con immagini di leoni, in un libro, su un giornale, in un bassorilievo di una fontana e persino con una coppia di leoni concreti, in un carrozzone di un circo. Tutto ciò in poche ore, senza che lui lo volesse. Il mio amico terminò il suo discorso dicendomi: "Però credimi, è proprio vero, ho effettivamente visto questi leoni!". Egli evidentemente temeva che non lo credessi e lo ritenessi allucinato. Io credetti a ciò che mi aveva raccontato e pensai che era proprio strano che una serie così numerosa di coincidenze lo avesse turbato in un momento così delicato, una vera sfortuna!

Qualche tempo dopo leggendo Jung, in particolare il saggio sulla sincronicità contenuto nel volume Naturerklärung und Psyche, mi sono reso conto che è possibile un’interpretazione molto più valida e soddisfacente di quella sfortuna. Tornerò più avanti su questo concetto di sincronicità.

La vita di Jung fu ricca di esperienze personali di fenomeni paranormali. Nelle sue memorie si accenna a sogni profetici e a precognizioni. In una lettera del 1961, l’anno della sua morte, egli afferma di aver osservato "il movimento di oggetti che non erano stati toccati direttamente, e per di più in condizioni sperimentali del tutto soddisfacenti dal punto di vista scientifico. Questi movimenti potrebbero essere designati come levitazione, se si assume che gli oggetti si muovono da soli. Ma questo non sembra essere il caso, perché tutti i corpi apparentemente semoventi si sono mossi come se fossero sollevati, scossi o lanciati da una mano. In questa serie di esperimenti anch’io, come altri osservatori, ho visto una mano e sentito la sua pressione: apparentemente la mano che ha provocato tutti gli altri fenomeni di questo tipo. I fenomeni non hanno nulla a che fare con la "volontà", poiché essi ebbero luogo solo quando il medium era in trance, stato in cui non disponeva affatto dell’uso della volontà. Questi fenomeni sembrano appartenere alla categoria delle manifestazioni di spiriti".

Gli esperimenti cui accenna Jung sono certamente quelli eseguiti con il medium Rudi Schneider insieme al parapsicologo Albert Schrenk-Notzing. Questi esperimenti nei quali furono osservate materializzazioni e fenomeni psicocinetici, ebbero luogo nella Clinica Psichiatrica di Zurigo, il celebre Burghölzli, e a essi prendeva parte il direttore stesso della clinica, Eugen Bleuler. Questi partecipò anche a un’altra serie di esperimenti che Jung eseguì con altro medium.

L’interesse di Jung per la parapsicologia fu molto precoce: risale al periodo in cui studiava medicina. La sua tesi di laurea, Sulla psicologia e patologia dei cosiddetti fenomeni occulti, ha per oggetto le sedute spiritiche che egli organizzò e che avevano per medium una sua cugina di 15 anni. Nella sua tesi Jung forniva una interpretazione puramente psicologica dei fenomeni osservati, interpretazione nella quale oggi è possibile scorgere i germi delle sue successive concezioni. Mentre la giovane medium era in trance, in lei parlavano due "personalità" che Jung interpretò come parti inconsce della psiche. Il fenomeno nel suo insieme era interpretato come uno sdoppiamento isterico di coscienza, e in tutto ciò già si può intravedere il concetto di complesso autonomo dell’inconscio che egli elaborò negli anni successivi. Jung notò anche che "non è da escludere che fenomeni di sdoppiamento di tale tipo non siano che nuove formazione di carattere, o tentativi di venire alla luce della futura personalità". Con ciò attribuiva a questi "sonnambulismi" un significato teologico, anticipando il suo costante orientamento metodologico di fronte al sintomo, che è quello di coglierne, insieme all’aspetto negativo, l’aspetto positivo, finalistico, prospettivo, l’aspirazione al compimento della personalità.

Ancora un’interpretazione puramente psicologica dei fenomeni occulti fu avanzata da Jung in una conferenza del 1919 davanti alla British Society for Physical Research, apparsa nel 1928 col titolo I fondamenti psicologici della credenza negli spiriti, nel volume L’energetica dell’anima. Qui Jung interpretava gli spiriti e altri fenomeni occulti come complessi autonomi inconsci che appaiono proiettati ovvero come attività esteriorizzate di complessi inconsci. Egli scriveva: "Del fenomeno dell’esteriorizzazione sono persuaso. Io ho osservato a esempio molteplici azioni telepatiche di complessi inconsci. Tuttavia io non posso riconoscere in tutto questo alcuna prova dell’esistenza di spiriti reali: fino a prova contraria devo pertanto considerare questo campo come un capitolo della psicologia".

Quasi trent’anni dopo, nella seconda edizione di questo volume Jung aggiungeva una nota in cui diceva: "Dopo aver raccolto esperienze psicologiche per mezzo secolo da molti uomini e in molti paesi, non mi sento più così sicuro come nel 1919, quando scrissi questa frase. Ammetto apertamente di dubitare che una metodica e una concezione esclusivamente psicologiche possano essere adeguate alla comprensione del fenomeno in questione. Non solo le osservazioni della parapsicologia ma anche le mie personali riflessioni teoretiche... mi hanno condotto a certi postulati che toccano il terreno delle rappresentazioni della fisica atomica, cioè del continuum spazio-temporale. In tal modo viene sollevata la questione della realtà transpsichica...".

Le riflessioni teoretiche cui Jung accenna consistono nell’ipotesi che al di là della psiche con le sue manifestazioni e connessioni nello spazio e nel tempo si trovi una realtà transpsichica nei cui caratteri distintivi rientra una relativizzazione o un dissolvimento del tempo e dello spazio reale. Ciò che è sperimentato dalla coscienza come passato, presente e futuro, si relativizza in questa realtà transpsichica, fino a fondersi, aumentando la distanza dalla coscienza, in una unità non conoscibile o extra-temporalità (Zeitlosigkeit), e ciò che appare alla coscienza come vicino e lontano soggiace allo stesso processo di relativizzazione, fino a confluire in una extraspazialità (Raumlosigkeit), del pari non conoscibile. Come fa giustamente notare Aniela Jaffé, autrice di un importante studio sull’argomento di cui ci stiamo interessando, studio che ho ampiamente utilizzato nella presente relazione, è rilevante nei riguardi delle ipotesi di Jung il fatto che la fisica nella ricerca sulle discontinuità nei processi atomici, si sia vista posta di fronte al problema della acausalità e della relativizzazione di spazio e tempo.

Il regno al di fuori dello spazio e del tempo della realtà transpsichica, fa ancora notare la Jaffé, induce naturalmente a riflessioni e ipotesi di ogni tipo, non solo sugli spiriti ma anche sull’al di là e sulla via dopo la morte. Jung ha sempre pensato che queste riflessioni, questo fantasticare, sia essenziale per l’uomo, una vera esigenza. Tutto ciò però fa parte del pensiero mitico e nulla ha a che fare con la scienza. In qualche occasione tuttavia Jung ha dato l’impressione di ritenere possibile una conferma scientifica di fenomeni post-mortali. Nel 1934 nell’articolo Anima e morte accennava al fatto che la psiche è immersa in una sfera al di fuori dello spazio e del tempo, il che la rende capace di percezioni extrasensoriali. Tutto ciò fa riflettere ma non autorizza a fare conclusioni su una esistenza post-mortale. In una lettera del 1960 si dimostrava più elastico su questo argomento: "Nella misura in cui l’anima è capace di percezioni telepatiche e precognitive, essa si trova almeno parzialmente in un "continuum extraspaziotemporale": per questa ragione sussisterebbe anche la possibilità di autentici fenomeni post-mortali. La relativa rarità di questi fenomeni indica che in tutti i casi le forme di esistenza dentro e fuori del tempo sono separate così nettamente, che il superamento di questi confini risulta oltremodo difficile. Questo comunque non impedisce affatto che parallelamente all’esistenza temporale ne scorra un’altra extratemporale. Anzi che noi stessi esistiamo contemporaneamente in entrambi i mondi, cosa di cui a volte ci coglie una intuizione».

Ma più che i cosiddetti fenomeni occulti o spiristici o cinetici sono i fenomeni designati come percezioni extrasensoriali che richiamarono l’attenzione di Jung e stimolarono il suo interesse alla parapsicologia. Queste percezioni extrasensoriali, non spiegabili da un punto di vista causale, sembra avere un ruolo essenziale nei presentimenti, nei sogni premonitori, nella telepatia, nelle precognizioni, eccetera, ma anche nei cosiddetti metodi mantici, cioè nelle tecniche intuitive o divinatorie di interpretazione del destino, come l’astrologia, il gioco dei tarocchi, il Libro dei Mutamenti cinese o I Ching, eccetera. Jung ammise che per questi fenomeni è necessario un principio esplicativo diverso dalla causalità, un principio di connessione acausale, che egli definì sincronicità, indicando con ciò la coincidenza temporale di due o più avvenimenti non in relazione causale tra loro, il cui contenuto significativo è identico o simile.

Jung esitò molto a lungo prima di affrontare il tema della sincronicità: nella prefazione del suo saggio intitolato appunto Sincronicità: un principio di connessione acausale, afferma che gli era mancato il coraggio di farlo, sebbene da venti anni avesse alluso all’esistenza di questo fenomeno nei suoi scritti. "Come psichiatra e come psicoterapeuta mi sono spesso incontrato con questo fenomeno e mi sono potuto convincere quanto significative fossero queste esperienze interiori per i miei pazienti. Nella maggioranza dei casi erano cose di cui la gente, tace, per la paura di esporsi allo scherno".

Certamente egli dovette essere incoraggiato dai celebri esperimenti di Rhine sulle percezioni extrasensoriali. Gli esperimenti di Rhine – egli scrisse – ci hanno insegnato che l’improbabile può verificarsi, e che la nostra immagine del mondo corrisponde alla realtà solo se anche l’improbabile vi trova posto.

Nello studio già citato la Jaffé molto opportunamente fa alcune precisazioni a proposito della definizione di sincronicità che abbiamo ora riferito. In primo luogo la coincidenza temporale va intesa come contemporaneità relativa. Si tratta di una contemporaneità soggettivamente sperimentata e non di una contemporaneità oggettiva, determinabile con l’orologio.

Un ruolo essenziale ha poi nei fenomeni sincronistici il loro contenuto significativo. È il senso o l’esperienza di una connessione significativa che riunisce avvenimenti non legati causalmente in una totalità, in una esperienza unica – dice la Jaffé –, e aggiunge che talora il senso risulta dall’uniformità o dalla somiglianza della esperienza interna ed esterna, mentre in altri casi l’esperienza di significato deriva indirettamente da una relazione simbolica, come quando, a esempio, la morte di un uomo è per così dire annunciata da un orologio che si ferma improvvisamente. Questa relazione simbolica degli avvenimenti sincronistici è particolarmente evidente nei sogni premonitori: nell’ultimo lavoro che Jung scrisse prima della sua morte, contenuto nel volume L’uomo e i suoi simboli, egli trattò una serie di sogni di una bambina di 8 anni che morì un anno dopo, sogni nei quali erano contenute grandi immagini archetipiche, relative a una problematica religiosa di gran lunga trascendente le capacità di comprensione della bambina. Jung, come abbiamo già accennato, interpretò i risultati di alcune metodiche divinatorie tipo l’oracolo dell’I Ching e l’astrologia come fenomeni sincronistici. Per esempio nel caso dell’I Ching si verificherebbe un parallelismo inatteso di fenomeni psichici e fisici sulla base di un legame significativo – di somiglianza – tra l’evento reale, cioè la situazione presente o futura su cui si interroga l’oracolo, e il responso dell’oracolo, quale risulta dalla caduta delle monete. Naturalmente non ci si può aspettare alcuna regolarità nell’accordo tra l’esagramma dell’I Ching e la realtà. Gli eventi sincronistici secondo Jung non sono altre che eccezioni acausali, rese possibili dal fatto che la causalità è una verità statistica. Tuttavia Jung stesso, come fa notare la Jaffé, inclinava – senza potere o volere dimostrarlo – a credere che «nelle risposte "giuste" non si tratta affatto di caso ma di regolarità». A parte il fatto che una tale regolarità è ben difficilmente dimostrabile, in quanto tutto dipende dalla capacità di chi si interroga di interpretare le risposte difficili e simboliche dell’oracolo, essa contrasta con l’ipotesi che i fenomeni sincronistici siano eventi irregolari ed eccezionali. Secondo la Jaffé l’opinione di Jung sembra essere giustificata dal fatto che egli interrogò l’I Ching solo in casi pressanti, dunque in situazioni critiche che costituiscono il presupposto per il manifestarsi di fenomeni sincronistici. Con ciò si allude all’ipotesi che il verificarsi dei fenomeni sincronistici sia in relazione a uno stato soggettivo di colui che ne fa esperienza. Questa ipotesi è molto vicina a quanto è stato constatato negli esperimenti di Rhine sulle percezioni extrasensoriali, e cioè che il numero dei successi diminuisce quando si instaura la noia e la tensione delle aspettative dei risultati positivi perde intensità. Jung vide appunto in tale aspettativa del miracolo, di conoscere l’inconoscibile, il fondamento "archetipico" degli esperimenti di Rhine.

Nel saggio sulla sincronicità Jung riportò i risultati di un suo esperimento astrologico: egli aveva raccolto alcuni oroscopi matrimoniali e li aveva divisi in tre gruppi, in modo fortuito. Rilevò quindi che in tutti e tre i gruppi si ripetè il fenomeno di una maggiore frequenza statistica di tre congiunzioni lunari, considerate tipiche del matrimonio nella tradizione astrologica, il che corrisponde all’avverarsi di una probabilità su 2.500.000. Egli affermò che questo risultato non era dovuto a un reale influsso da parte degli astri e delle loro posizioni, nel senso di una causalità: nel verificarsi di questo risultato, a sua parere, aveva giocato un ruolo la reciproca connessione tra il suo stato psichico e il materiale esaminato e da lui ordinato a caso nei tre gruppi, cioè che si trattava di un fenomeno sincronistico.

La caratteroscopìa astrologica fu da Jung interpretata in base alla coincidenza acausale, sincronistica, tra qualità temporali particolari del momento della nascita descritte nei miti e avvenimenti interni ed esterni della vita dell’individuo. Così, spiegava Jung, la determinazione astrologica "solo nell’Ariete" – attribuibile astrologicamente ai mesi di marzo e aprile – possiede la qualità temporale "primavera". Questa concezione dell’astrologia come funzione delle qualità del tempo permette di superare la critica astronomica all’astrologia. A causa della precessione degli equinozi la posizione astronomica delle stelle non coincide con quella calcolata astrologicamente di un oroscopo. La qualità del momento temporale marzo-aprile o dell’espressione astrologica "solo in Ariete" è e rimarrà sempre la primavera.

Jung però fu molto impressionato da una conferenza che Max Knoll tenne al convegno di Eranos, ad Ascona, nel 1951, su I mutamenti della scienza del nostro tempo. Knoll affermò – riferisce la Jaffé – che l’irradiazione protonica del sole è influenzata da congiunzioni planetarie, opposizioni e aspetti quadratici, in modo tale che il presentarsi di tempeste elettromagnetiche (periodi delle macchie solari) può essere previsto con non piccola probabilità. Poiché d’altra parte si possono osservare delle concordanze tra i periodi delle macchie solari e le curve di mortalità degli uomini, come anche disturbi delle trasmissioni radio, sembra che si possano qui avere dei rapporti causali, dei veri e propri influssi. Di queste osservazioni sembrerebbe possibile una conferma di quanto è stato sempre affermato dall’astrologia tradizionale e cioè l’azione sfavorevole delle congiunzioni, delle opposizioni e delle quadrature planetarie e l’azione positiva degli aspetti trigonali e sestili.

La possibilità di un rapporto causale tra aspetti planetari e disposizioni psicofisiologiche dell’uomo, indusse Jung a ricredersi sull’interpretazione sincronistica dell’astrologia. In una lettera del 1958 egli tuttavia scriveva: "Come ho detto, l’astrologia sembra richiedere diverse ipotesi e io non sono in grado di dichiararmi per un aut-aut. Si dovrà probabilmente far ricorso a un’interpretazione mista, perché la natura non usa preoccuparsi della pulizia della formazione dei concetti intellettuali".

Ma torniamo ora al problema del verificarsi dei fenomeni sincronistici. Sogni premonitori, presagi, fenomeni psicocinetici, sembrano essere più frequenti in corrispondenza di eventi come la morte, gravi malattie o crisi di altro genere, ma questo non è sempre il caso. Non si può quindi affermare che il verificarsi dei fenomeni sincronistici dipenda da un intenso stato emotivo del soggetto. Secondo Jung ciò che è essenziale è il costellarsi di un archetipo, ciò che spesso si associa ad intense emozioni.

Ma a questo punto sarà necessaria una breve digressone sul concetto di archetipo. L’archetipo, nella concezione più matura di Jung, è un mondo ereditario di funzionamento psichico, ovvero una funzione strutturante. Esso è qualcosa che non può essere percepito perché esiste solo in potenza. Si manifesta su vari livelli, da quello biologico, come schema di comportamento, come istinto a quello spirituale, come immagine archetipica, ovvero come simbolo. Questa ipotesi psicologica sull’archetipo, come elemento costituente dell’inconscio collettivo, è quella che Jung ha utilizzato nella grande maggioranza dei suoi lavori. In alcune occasioni, dopo il 1946, egli ha però designato gli archetipi come psicoidi, volendo con ciò indicare che essi non devono essere concepiti come grandezze e funzioni puramente psichiche, essendo la loro natura altrettanto psichica quanto fisica. Questa contaminazione – commenta la Jaffé – è un paradosso palese, ma non più strano di quello, riconosciuto dalla fisica, per cui la luce e i più piccoli elementi costitutivi della materia devono essere considerati ora come onde e ora come corpuscoli.

L’archetipo psicoide, ipotizzato parallelamente alla realtà transpsichica, extratemporale ed extraspaziale, dell’inconscio collettivo, agirebbe come ordinatore degli avvenimenti acausali parapsicologici, cioè dei fenomeni sincronistici. Però l’archetipo non è la causa trascendentale di questi fenomeni, esso è soltanto il loro ordinatore, la loro condizione.

Nel «Parallelismo inatteso di fenomeni psichici e fisici» l’archetipo manifesta la sua natura psicoide (psicofisica): esso appare qui come immagine (psichica) e là come fatto esterno, e a volte anche come oggetto (fisico). Esso conferisce una connessione significativa acausale ai fenomeni sincronistici.

Forse siamo ora in grado di intravedere la possibile interpretazione junghiana dell’esperienza del mio amico e collega di cui ho accennato all’inizio del mio discorso. Egli si trovava in una fase critica della sua esistenza: il suo Io non sembrava momentaneamente in grado di difendersi adeguatamente dal pericolo dell’irruzione dell’inconscio e dei suoi contenuti archetipici. Le cosiddette coincidenze occorsegli possono essere considerate un fenomeno sincronistico.

Il suo stato emotivo, l’abbassamento del livello mentale, hanno favorito l’attivarsi, il costellarsi di un archetipo, che si è manifestato simultaneamente nella sua psiche e nell’ordinamento di alcuni eventi esterni e indipendenti. Ci sarebbe poi molto da dire sulla possibilità che l’immagine del leone sia simbolica di un particolare elemento archetipico, ma ciò ci porterebbe troppo lontano.

Anche i cosiddetti fenomeni telepatici sono da Jung considerati un fenomeno sincronistico: si tratterebbe dello sdoppiamento di un unico contenuto psichico, che comparirebbe nell’«agente» e nel «percepiente» e non del parallelismo di un avvenimento psichico e uno fisico (esterno). Nella concezione junghiana «agente» e «percepiente» sono soltanto strumenti di un archetipo che si struttura nel tempo e nello spazio, sono attori di una medesima situazione archetipica. Una situazione archetipica si realizza con una certa facilità nel rapporto madre-figlio e anche nel rapporto tra analista e analizzato: qui il legame inconscio sembra rendere molto più frequenti i fenomeni sincronistici in genere e quelli telepatici in particolare.

Vorrei, a conclusione della mia breve esposizione sui rapporti tra Jung e la parapsicologia, riportare alcune osservazioni della Jaffé a proposito dei fenomeni sincronistici: «Nel fenomeno sincronistico e nel suo singolare confluire di tempo, spazio e oggetti, diviene visibile o sperimentabile qualcosa dell’unità trascendentale originaria, per cui esso porta con sé anche il soffio del meraviglioso. È un paradosso naturale. Le grandezze fuse tra di loro in quella realtà unitaria non sono completamente separate; non sono ancora del tutto liberate nell’individualità del nostro tempo e del nostro spazio, ma psichico e fisico parlano la stessa lingua; esse esprimono l’archetipo, e ciò che le unisce è un significato aprioristico, presente apparentemente al di fuori dell’uomo: espresso in termini generali: una modalità acausale, una strutturazione acausale».

Da queste parole è facile dedurre che il concetto di sincronicità per Jung è strettamente collegato con il problema religioso: i fenomeni sincronistici ci appaiono come rivelatori di un ordine cosmico trascendente, che tutto comprende: «Io inclino infatti a pensare che la sincronicità in senso stretto – dice Jung – sia solo un caso particolare dell’ordinamento acausale generale, e precisamente quello della conformità di processi psichici e fisici».

Sembra dunque possibile a Jung inserire i fenomeni sincronistici in una nuova, più ampia e più completa immagine del mondo, nella quale accanto alle connessioni causali sono riconosciute come reali anche quelle acausali. Scriveva Jung in Mysterium Coniunctionis: «Il causalismo della nostra concezione scientifica del mondo risolve tutto in processi singoli, che esso cerca accuratamente di separare da tutti gli altri processi paralleli. Questa tendenza è assolutamente necessaria dal punto di vista di una conoscenza attendibile, ma dal punto di vista di una concezione del mondo ha lo svantaggio di perdere la connessione universale dei grandi rapporti, cioè dell’unità del mondo, viene progressivamente impedita. Ma tutto ciò che avviene, avviene in uno stesso e unico mondo e appartiene a esso. Per questa ragione gli avvenimenti devono possedere un aspetto unitario a priori». Al contrario i fenomeni sincronistici sembrano favorire l’accesso a una dimensione simbolico-globale dell’esperienza umana, contrapposta all’esperienza logico-razionale, che tende a racchiudere l’esistenza entro un sistema chiuso, rinnegando l’assurdo, l’imprevisto, l’improbabile, l’irrazionale, lo spontaneo. Da questo punto di vista i fenomeni sincronistici sono da considerare le eccezioni che, lungi da confermare la regola, ci fanno render conto che è impossibile soddisfare ciò che Heidegger chiama «la stolta pretesa dell’uomo di impadronirsi dell’essere invece di esserne il pastore e il custode».


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